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100 giorni a Bagdad

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Messaggio  Raffaele Ven 15 Ott - 11:59

Paolo ci ha inviato un versione leggermente estesa del suo racconto, pubblicato sull'ultimo numero di Ki.
Eccovela:

100 giorni a Bagdad

Le cose nascono forse sempre un po' per caso e anche questo mio scrivere è nato così.
Di fatto allo stage annuale di Iaido che si tiene da 20 anni a Borgo Valsugana conversando serenamente al tavolo da pranzo, Paolo Vanelli mi ha chiesto se ero disponibile a scrivere per la rivista trimestrale della CIK un articolo riguardante la mia esperienza di Iaido a Bagdad.
Premetto subito che a Baghdad non c'è un Dojo di Iaido e il mio trovarmi lì non era dettato da una vacanza ma bensì da un esigenza di lavoro. Come probabilmente tutti sanno, l'Italia è impegnata con un contingente in Iraq come missione di pace per preparare le nuove forze di polizia irachene e il mio lavoro consisteva proprio in questo.
La premessa è forse la chiave per comprendere meglio il seguito.
Dopo l'impegno lavorativo ci si ritrova in alcuni spazi comuni, dove si convive gomito a gomito senza vie di fuga. L'alloggio è un laminato prefabbricato di 3 metri per 4 con un unica finestra da cui si vede sempre il solito paesaggio: sacchetti di sabbia impilati come protezione.
Non c'è nient’ altro. E qui senza i nostri punti di riferimento quotidiani è facile perdersi.
La malinconia diventa come la sabbia: è ovunque e nessuno ci presta più attenzione.
Ognuno fa del proprio meglio e si ricrea un proprio piccolo mondo fatto di foto, musica, tabacco, carte, telefonate verso i propri cari, con la rete come unico contatto verso il mondo.
Non ci sono amici, amori, figli, le cose quotidiane e familiari che sono il nostro passato ed il nostro presente. Questo è lo stato d'animo con cui ho varcato la soglia della palestra, il tentativo di ricreare il mio mondo.
Questa palestra è gestita dagli iracheni, perché noi non ne avevamo una.
Pantaloncini e maglietta al posto del Iaidogi, cinturone senza pistola al posto del obj, saja con due lacci di scarpe come sageo e un bokuto al posto della Katana: questa la mia attrezzatura e la mia divisa.
Mi allenavo in mezzo a manubri e bilancieri, sotto i piedi un leggerissimo tappetino di sabbia, in mezzo a persone che non avevano mai visto nulla del genere e che osservano, come si suol dire, con la coda dell'occhio.
Come sottofondo musicale, sparati 100 decibel, video occidentali dove si vedono soltanto bellissime donne in biancheria intima.
Qui io ho coltivato il mio Iaido o, per meglio dire, ciò che è per me lo spirito dello Iaido.
Giorno dopo giorno i soliti suburi e i soliti kata.
Il prestare attenzione ai dettagli e movimento dopo movimento rimanere ancorati alla stessa disciplina. Il perseguire con tenacia e indiscussa fede ciò che riteniamo giusto e in questo quotidiano fendere l’aria, applicare solamente la fede incrollabile di un uomo attraverso la sua tecnica.
Ho ricercato attraverso lo Iaido un mio spazio e un mio tempo dove rimanere ancorato alla mia fede, alla mia cultura e alla mia morale, per non scivolare in facili e scontate conclusioni, per non farmi travolgere dagli eventi che ti piovono addosso.
Per mettermi sempre nella condizione migliore di poter scegliere con serenità cosa sia giusto fare e come farlo, assumendomi le responsabilità e assaporando la gioia e non la paura del proprio operato.
Con tenacia tutti i giorni mi sono ritagliato un momento e uno spazio dove il resto dell'universo rimaneva tagliato fuori e ho ritrovato la gioia e il piacere della pratica, vincendo ogni giorno le critiche, gli sguardi, la stanchezza e il tempo.
E in questo mi sono sentito sempre più forte ed indipendente.
Sì, parlo di gioia e di piacere e anche di sconforto: una serie di emozioni non facili da descrivere a parole.
Bagdad non è Riccione e sicuramente la circostanza e il mio stato emotivo iniziale hanno giocato un ruolo determinante in questa mia esperienza nella città delle mille e una notte.
Mi auguro che anche voi possiate provare simili emozioni che rendono alcuni momenti di indimenticabile bellezza e di inestimabile valore e che rimangono per sempre fissati nella memoria.
Il rientro dopo 100 giorni è stato traumatico, dal silenzio al frastuono del traffico, dal bokuto alla Katana.
Dopo un mese impugno la mia Katana che pesa ben 400 grammi di più.
E' pesante e non riesco a tenerla. Il gomito destro comincia a fare i capricci.
Sono costretto a rallentare tutti i movimenti per praticare ugualmente e mi presento allo stage del Maestro Miyazaki decisamente in condizioni non ottimali.
Il Maestro Ide mi riprende dicendomi che non va bene: “ Hai la faccia da duro ma il tuo Iaido è troppo morbido”.
Nella competizione individuale perdo due incontri, entrambi 3 a 0. Una stoccata alla mia vanità che mi aveva fatto credere di essere migliorato molto con tutte quelle ore passate ad esercitarmi, ma dopo aver poi visto i miei antagonisti devo ammettere la loro indiscussa bravura e la conclusione errata a cui ero arrivato sul mio Iaido.
Temo che la mia pratica assidua senza una guida abbia peggiorato la forma, ma porto ancora con me la gioia e il piacere di quei giorni, che cerco di esprimere se non attraverso la tecnica almeno attraverso la cordialità.
E’ forse l’esprimere il piacere di praticare lo Iaido il vero risultato che ho conseguito in 100 giorni.
Ringrazio Paolo Vanelli, Direttore responsabile della rivista on line Ki, per la possibilità che mi ha concesso di esprimermi.

Paolo
Raffaele
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